sabato 30 novembre 2013

Questa sporca dozzina


«Ok lo faccio anch'io!». E Alla fine ho ceduto alla tentazione. Se lo fanno i Cahiers, Sight & Sound, FilmTV e purtoppo anche Ciack, non vedo perché non dovrebbe Umbria Noise? E con questa motivazione del tutto aleatoria, ho iniziato a stilare la mia personale Best films of 2013. L'ho fatto alla mia maniera, senza alcuna pretesa, niente top ten né twenty, semplicemente due mezze dozzine di visioni immancabili. Prima i sei film che ho visto al cinema in questo 2013, e dei quali mi sono innamorato, e poi i cinque + un film che ho visto in sedi più o meno legali e che vorrei assolutamente rivedere al cinema nel 2014. A differenza di altre classifiche, tra i già visti, non ho segnalato i film prodotti in questo anno, ma quelli usciti nelle sale italiane in questo anno. Una lista, terra a terra, fatta con gli occhi di chi i film li guarda. Non c'è classifica, ma solo il consiglio di vedere dodici film che mi sono piaciuti. Nessun'analisi, non sarebbe giusto in così poco spazio. Solo suggestioni, buone per chi ne è curioso, utili per chi non è in accordo. Avrei potuto inserire molti più titoli, non pochi sono i film che ho lasciato fuori, a cominciare da La cinquième saison di Peter Brosens, No di Pablo Larrain, Küf di Ali Aydin, L'exercice de l'Etat di Pierre Shoeller e Zero Dark Thirty di Katrhyn Bigelow. Li ho esclusi perchè ne ho voluti scegliere dodici. Una dozzina di film e solo per un motivo. Mentre scrivevo mi passava davanti agli occhi un film di Robert Aldrich con John Cassavetes e Charles Bronson del 1967. Pertanto ecco a voi (la mia) The dirty dozine.

                                 

UNA MEZZA DOZZINA ANDATA

Gennaio è The master di Paul Thomas Anderson. Dopo di che, per molte settimane, andare al cinema ha avuto un senso relativo. A Febbraio arriva dal Sundance l’opera prima che riaccende le speranze: Beasts of southern wild di Benh Zeitlin. A conferma che il cinema indie made in USA è la dream factory che produce senza soluzione di continuità, si materializzano Ryan Goslin e Michelle Williams asfissiati nell’abbraccio Blue Valentine di Derek Cianfrance e poi a Marzo quello schermo costruito ad arte oltreoceano va in frantumi sotto l’ossessiva e martellante azione di disturbo di Harmony Korine. Spring Breakers è la rivoluzione cine/comics/videogames che rappresenta alla perfezione questo tempo. A Maggio si torna in Europa. L’immagine si ricompone e il non meno disturbante Leos Carax mostra finalmente anche agli italiani Holy Motors. Un ritorno e una confema: il cinema è ancora affair pour l’usine à rêves. Ottobre chiude la mezza dozzina. La vie d’Adèle di Abdellatif Kechiche mette la pietra tombale su tutto il cinema che sarà da qui alla fine del 2013.

                                   

UNA MEZZA DOZZINA DA VENIRE
Cominciamo da Edgar Reitz che al festival di Venezia ha presentato il IV capitolo di quell'Heimat iniziato nel 1984. Die andere Heimat è semplicemente il cinema che vorrei sempre vedere al cinema. La seconda suggestione è Mud di Jeff Nichols. Dalle fangose rive del Missisipi un romanzo di formazione che reinventa il genere. Altra necessaria visione è The broken circle breakdown di Felix Van Groeningen. Un bluegrass movie sospeso tra le Fiandre e l'Appalachia. Si torna negli Stati Uniti con Fances Ha di Noah Bumbach. Bianco e nero, leggero e sconnesso. Si danza, si sogna, si ride e si piange e poi c'è Greta Gerwig. Stessi colori per La jalousie e la quotidianità parigina: un uomo, sua figlia, l'ex moglie e una nuova compagna. Istantaneo e perfetto come quasi ogni film di Philippe Garrel. L'attesa infine è per Le meraviglie, nuovo film di Alice Rohrwacher e unico italiano a far parte di questa speciale dozzina. Non l'ho ancora visto ma, conoscendo il suo cinema, mi gioco volentieri una wild card.


dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.18

martedì 29 ottobre 2013

Mon cher Cannes


                           

Con le nebbie autunnali arrivano finalmente in sala i film dell'ultima edizione del Festival di Cannes. E se Lo sconosciuto del lago di Alain Giraudie, miglior regia nella sezione Un certain regard, ha goduto solo di un rapido passaggio, di più ampio respiro sembrano essere le attenzioni riservate a La vita di Adèle e Giovane e Bella. Autori dei film sono Abdellatif Kechiche e François Ozon, due talenti tra i più interessanti del nuovo corso della cinematografia francese. Coetanei che da più di un decennio condividono la scena dei principali festival internazionali. Kechiche facendo incetta di premi, Ozon sempre al verde nelle occasioni che contano. Eppure tra le due cinematografie, diverse non per caratura ma per scelte stilistiche, c'è realmente un confine molto sottile testimoniato anche dall'aver ravvivato l'antica disfida tra i critici dei Cahiers du Cinema e quelli di Positif. Senza svelarvi chi sta con chi, a voi il piacere di scoprire o riscoprire le cinematografie dell'uno e dell'altro. François Ozon è il più prolifico tra i due, con i suoi 14 lungometraggi in 14 anni ha indagato ogni genere cinematografico con risultati eccellenti, dalla commedia al thriller, dal dramma psicologico al cinema sociale. Un'artista eclettico che indaga sulle periferie, alte e basse, dell'esistenza umana. Abdellatif Kechiche è invece l'autore francese, naturalizzato date le sue origini tunisine, per eccellenza. Un percorso di soli 5 film in 13 anni di carriera che fanno della sua una delle cinematografie più coerenti ed omogenee dell'attuale panorama internazionale, capace di rappresentare al meglio le periferie, alte e basse, dell'esistenza umana.

In questa occasione, e speriamo ce ne siano molte altre, Giovane e Bella è stato visto e recensito da Andrea Mincigrucci, migrante dell'intelletto che vive e lavora a Strasburgo, dove tra Odysée (www.cinemaodyssee.com), Star e Saint-Euxupéry (www.cinema-star.com) ha la fortuna e il piacere di ammirare tutto il cinema possibile ed immaginabile. Il resto è farina del mio sacco. Buona visione!


LA VITA DI ADELE
Se c'è un tempo in cui si deve affidare alla contemplazione il racconto dell'animo umano, quel tempo passa anche per i 179 minuti nei quali Abdellatif Kechiche racchiude il campo dell'universo nei volti delle sue protagoniste. E' in questo close-up, costantemente ostentato, che il romanzo di Adèle prende forma. Caratterizzato dal tratto di Paul Gauguin, che appare e scompare sostituendosi ai corpi danzanti di Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, il mondo di Kechiche richiede un impegno contemplativo e partecipativo. Bisogna osservare per poi divenire, in maniera del tutto familiare, parte delle emozioni, delle angosce e delle scelte che vivono Emma ed Adèle. Partecipare ad un cinema che, nel suo lento incedere, riesce a sabotare e smontare una delle regole fondamentali del cinema stesso: la sorpresa. E' la trama semplice e prevedibile, che rende tutto fin troppo chiaro dopo pochi minuti, a trasformare La vita di Adele (La vie d'Adèle) in un film unico e grande. La scoperta della sessualità è il racconto di un amore come mai prima è stato rappresentato dal cinema. Un voyerismo partecipativo che nessun teorico delle suspense e delle regole magiche del cinema avrebbe mai potuto immaginare. Con Kechiche si entra in una nuova dimensione: in un solo colpo si distrugge e si scrive un'altra teoria del cinema. Dove non sono né tre né cento le D che dimensionano lo spazio cinematografico, ma infinite come le dimensioni che letteratura e pittura hanno in sé e che nella meraviglia di questa rappresentazione mai dimenticheremo. L'ESPRIT DU TEMPS.





GIOVANE E BELLA
Le note di quattro canzoni accompagnano, attraverso i giorni di quattro stagioni, la storia di Isabelle, Marina Vacth, protagonista di Giovane e Bella (Jeune et jolie). La nuova opera di François Ozon è una storia che sfugge alla regolarità ciclica del tempo e della vita dell’uomo. Una storia che apre un breve spiraglio dove non si è più bambini ma non si è ancora adulti. Lo sguardo di Ozon si posa sul momento più puro dell’adolescenza, quello che dura solo un breve attimo, dove si è liberi senza esser responsabili, dove non si né morali né immorali. È il momento in cui la leggerezza dell'essere può farti scegliere di cambiare la tua vita, rimasta immutata anche dopo la perdita della verginità, per diventare una prostituta d’alto bordo. Tra siti web per appuntamenti e lezioni di letteratura al liceo, tra lussuose camere d’albergo e feste del fine settimana con gli amici, Isabelle non ci si mostra mai sotto una luce ostentata. La pornografia appartiene agli adulti. Isabelle è invece la giovinezza e la sua bellezza, la leggerezza delle scoperte avventurose e del rischiare tutto se stessi nell’incoscienza di un gioco. Isabelle non è nella serietà delle regole del mondo dei grandi perché... ON N'EST PAS SERIEUX QUAND ON A DIX-SEPT ANS.



dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.17

domenica 27 ottobre 2013

Chef-d'œuvre

Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux ritratte in un fotogramma di La vie d'Adèle di Abdellatif KechichePalma d'Oro dell'ultimo Festival di Cannes. Ne parleremo presto, a più riprese.

giovedì 26 settembre 2013

Venezia 70, da una patria all'altra

Ci siamo lasciati a settembre, con Venezia 70 ancora alle porte, chiedendoci quali e quanti film sarebbero emersi dalle torbide acque della Laguna. A distanza di un mese dobbiamo ammettere che dal concorso ufficiale davvero pochi segnali. Qualche sussulto è giunto invece dalle sezioni collaterali. Da Giornate degli autori, Settimana della Critica e Orizzonti cito in ordine sparso: Köksüz opera prima di una giovane regista turca, Deniz Ackay, che spero di trovare presto nelle sale italiane assieme a Class Enemy di Rok Bicek e Bauyr di Serik Aprymov. Tre film sulle giovani generazioni al confine con l'Europa. Un capitolo a parte meritano invece Redemption di Manuel Gomes, autore portoghese di Tabù, film del quale consiglio un download immediato; Die andere heimat di Edgar Reitz, nuovo capitolo della, fino ad oggi, tetralogia di Heimat e Piccola Patria di Alessandro Rossetto, opera prima italiana, naturalmente ancora senza distribuzione. Tre opere legate a doppio filo ad un Europa che sembra aver smarrito la bussola. Tre film, sui padri e sulla patria, che covano in seno il futuro del cinema.

PICCOLA PATRIA

L'opera di Alessandro Rossetto è il miglior film italiano visto a Venezia 70. Fuori concorso, un po' sgangherato ma vivo e potente alla stregua della sua giovane interprete Maria Roveran. Come accaduto per L'intervallo e Corpo celeste, la nuova cinematografia italiana si fa forte di un racconto piccolo e straniante, nascosto nel microcosmo della provincia, ma diretto al centro nevralgico di una patria/paese che sulla schiavitù fonda la sua rinnovata legittimità governativa. Violenta e senza speranza, l'urbanistica degradante del far-est padano che fa da contesto all'ossessiva ricerca dei suoi abitanti. Piccola Patria è il racconto, non di un paese, ma di chi ne calpesta il suolo. Donne è uomini alla ricerca di una fuga personale, politica, sociale, culturale. Induzione è la parola che meglio racconta questo film. Bisogni indotti, come frustrazioni, in una patria che non è né piccola, né povera, ma semplicemente quello che è. L'ACQUA ZE' MORTA.



L'ALTRA PATRIA
L'utopia di una narrazione infinita. Il cinema come strumento di rappresentazione del tempo e dello spirito che anima il concetto di patria. Die andere heimat, quarto capitolo del racconto di vita di una nazione, è quanto di più vicino alla perfezione cinematografica. Se esiste un luogo dove l'utopia del capolavoro assoluto diviene realtà questo è la cinematografia di Edgar Reitz. E' l'origine dei Simon, la famiglia protagonista di tutti i capitoli di Heimat, che da vita alla saga cinematografica della storia di Germania. E' l'origine di un tempo drammatico e meraviglioso che con i ritmi e le emozioni della scoperta si muove tra la formazione degli uomini e la rivelazione del futuro. Macchina a vapore e un'altra patria da conquistare. E' il cammeo finale di Werner Herzog a riportarci alla realtà, ricordandoci che ancora una volta siamo all'origine del cinema. Un cinema moderno e antico. Un cinema nuovo. Una neu welle che ancora oggi è il futuro del cinema. A soli 80 anni Edgar Reitz ci confessa di essere ancora all'inizio. BIS ZUR NÄCHSTEN HEIMAT.



REDEMPTION
Un film di montaggio dove ad essere smontate e scombinate non sono solo le immagini di archivio tratte delle storie più o meno ufficiali di Portogallo, Italia, Francia e Germania, ma soprattutto la rappresentazione della realtà che si confonde con l'immaginazione della realtà. Dove la storia di Europa si materializza, sgretolandosi attraverso le parole dei quattro apocrifi padri della patria, è la storia dei suoli natii che si confonde, si somma, si moltiplica, cedendo allo spettatore la chiave di lettura e la libertà di tessere la trama della ricomposizione attraverso i titoli di coda. Sarebbe potuto accadere, è accaduto veramente? Certo è che il cinema di Manuel Gomes riesce dove gli altri inciampano. Prende per mano lo spettatore e lo conduce in un meraviglioso gioco inebriante degno del miglior cinema espressionista. Non è cosa da poco per un mockumentary sulla storia d'Europa. Redemption come riscatto o come marketing insegna: risultato di una promozione di vendita? QUANDO LA POLITICA SI FA MERCATO.



dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.16

martedì 27 agosto 2013

Lost in the supermarket


Venezia 70. La Mostra Internazionale di Arte Cinematografica, il festival più vecchio al mondo che come ogni anno apre la stagione cinematografica invernale. Un programma fitto di premiere che determinerà la programmazione delle sale fino al prossimo mese di maggio, quando, con il Festival di Cannes, la più nobile agenda francese manderà in panchina il programma veneziano. Ma se questo è vero per gran parte del pianeta, lo è un po' meno per il nostro paese. Di anno in anno, infatti, cadono a decine le vittime della censura commerciale italiana. Film premiati a Venezia o negli altri festival internazionali, piccoli e grandi capolavori, che il “sistema” giudica irricevibili per il pubblico e pertanto invisibili ai più. Di chi la colpa di questo stillicidio che annovera tra le vittime giovani autori all'esordio e maestri premiati con tanto di Oscar? La responsabilità principale è sicuramente delle distribuzioni italiane, che abituate ad incassare senza rischi, evitano come la peste film drammatici, opere prime e cast di scarso rilievo mediatico. Altra “complice” di pari importanza è la politica culturale italiana, la grande assente nelle arti visive, che prima finanzia a suon di milioni il red carpet festivaliero e poi abbandona al proprio destino film, produzioni e registi. Un'anomalia tutta italiana che non trova eguali in nessun paese europeo. Ultime, e non certo per importanza, sono le nostre responsabilità di spettatori che, assuefatti dal torpore della paytv, sistematicamente disertiamo le poche e decisive occasioni forniteci da piccole e sconosciute case di distribuzione sull'orlo del fallimento. Si evita così il film, la sala che lo proietta e ci si rivolge altrove: dove il facile ed accogliente già visto, non turba, né stimola od ossessiona come, invece a mio avviso, il cinema dovrebbe rigorosamente fare. Nel pensare alle tante sale vuote, frequentate quasi in maniera clandestina, ho davanti agli occhi l'interminabile sequenza di chilometri e chilometri di pellicolla riciclati in cambio di pettini e cottillon. Se passando da Roma, Bologna o Milano vi capitasse di perdervi nella zona industriale che ospita il magazzino destinato ad archiviare e distribuire i film per le sale limitrofe, invitabilmente vi accorgereste dei tanti container posteggiati difronte al magazzino stracolmi di pellicole di film a voi misteriosi. Opere d'autore, destinate non alle sale, ma a quella fabbrica tedesca che trasforma le immagini stampate su celluloide in materia plastica buona solo a dare vita ad inutili oggetti di uso quotidiano. Vedo questo e penso all'ultimo western di Gore Verbinski e alla battuta tormentone di Tonto, alias Johnny Deep, «...baratto sbagliato!». Purtroppo però non siamo in un cinematografico antico e selvaggio west, ma inevitabilmente va preso atto che il “bel paese morente”, inventore della primo festival cinematografico al mondo, è incapace di sostenere e rendere visibili migliaia di titoli che nel resto d'Europa riempiono le sale. Qui da noi appaiono e scompaiono, nel tempo di un “ciack”, La quinta stagione di Peter Brosens, Spring Breakers di Harmony Corine, Muffa di Ali Aydin e L'intervallo di Leonardo Di Costanzo, tanto per citare quattro titoli passati al festival l'anno scorso e subito diventati oggetti invisibili e puriginosi, dei quali si narrano fantomatiche apparizioni in misteriose sale di provincia. Ignoti marinai, anonimi Caboto e illustri nostromi scampati al naufragio in laguna ma che, a discapito del vento in poppa di stampa e pubblico straniero, entrano in secca a poche miglia dal porto di Venezia. A voi dunque un rapido vademecum opinabile ed estremamente partigiano di film e registi caduti in laguna negli ultimi tre anni di festival. 



NAUFRAGATI IN LAGUNA

Venezia 67. Attenberg di Athina Rachel Tsangari. Romanzo di formazione che porta sullo schermo una vita. Distante dai film sull'adolescenza “made in USA” pregni d'estetica e privi di sostanza. Cinema d'Europa a poche ore dalla crisi. Coppa Volpi all'interpretazione femminile. Essential Killing di Jerzy Skolimowski. L'America e/è il terrorismo in una sola parola. Vincent Gallo è l'archetipo della sopravvivenza. Skolimowski l'infernale «...somma sapienza e 'l primo amore». Premio speciale della Giuria e Coppa Volpi all'interpretazione maschile. Venezia 68. Wuthering heights di Andrea Arnold. Nessuna teatralità borghese. Non uno degli infiniti addattamenti del romanzo di Emily Brontë ha saputo narrare la violenta grazia della natura come la semplicità narrativa della Arnold. Opera verista. Premio Osella per la miglior fotografia. ¡Vivan las Antipodas! di Victor Kossakovsky. Ode alll'universo. Dal Cile alla Cina contrasti e conformità degli opposti. Prosa e poesia per un documentario terapeutico. Venezia 69. Paradies: Glaube di Ulrich Seidl. Secondo capitolo della trilogia Liebe / Glaube / Hoffnung. Vivisezione di un cattolicesimo che odia. Freak e personaggi alla Diane Arbus destinati a mondare ed odiare il prossimo come se stessi. Fotografia di un' Europa progenitrice e figlia di fedaici totalitarismi. Premio speciale della Giuria. Venezia 70. «A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e le velle, sì come rota ch'iugualmente è mossa, l'amor che move il sole e l'altre stelle». IN DANTE VERITAS.



dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.15

venerdì 31 maggio 2013

Illustre vittima di un'opera prima

Ci risiamo. Capita talmente poco spesso, che ogni volta che accade, assume il fascino e il timore della prima volta. C’è in sala un film importante, da vedere, e da odiare/amare. C’è in sala un film del quale discutere. Dopo The master (il miglior film della stagione), tocca a La grande bellezza (forse il peggiore). Le scene di meravigliosa e straordinaria follia, che hanno portato le sale cittadine a dichiarare il “sold out” per le proiezioni del film di Sorrentino dello scorso fine settimana, mi hanno obbligato ad una riflessione più attenta. Perché le 2 ore e ½ trascorse in sala al cospetto di Toni Servillo mi sono sembrate un’impagabile perdita di tempo? Mi è corso in aiuto ancora una volta Simone Rossi, a conferma che i nostri gusti vanno in direzione opposta, e si è offerto di spiegarmi dove e perché sbaglio nell’analizzare il film di Sorrentino. Ovviamente non mi ha convinto... ed ecco a voi quanto ne segue: Simone è il suo perché si, io e il mio perché no a La grande bellezza.





PERCHE’ SI

Sorrentino e la ricerca della grande bellezza. Un lavorìo mentale che vive di contraddizioni, le stesse che innervano dall’inizio alla fine questa strana e straordinaria pellicola. C’è Jep, in primis, uomo di cultura, citazionista, che ha scritto un romanzo ‘alto’ quarant’anni prima, ma che oggi è il re del vuoto delle feste patinate; c’è la spogliarellista dalla meravigliosa esteriorità, ma malata; c’è il cardinale dello spirito che impartisce ricette culinarie per il corpo. E c’è Roma, magnifica e distante, immersa in una luce costante che pare filtrata dalle borgate polverose di Pasolini. La scrittura del regista si fa poesia e scomoda, senza scandalizzare, Flaubert, Celine, Proust. Il sublime che si innesta nel volgare: la grande bellezza è pure enorme bruttezza. E Fellini? I riferimenti sono chiarissimi: e se La Dolce Vita emerge quasi solo per quella struttura/non struttura della pellicola, le suggestioni più immediate sono quelle di 8 e ½ e Amarcord; fino alla Ardant/Magnani di Roma. Gli uomini di carne come le statue di pietra sono qui, appesi o immobili. Mentre la vita e l’arte che si vorrebbe imprigionare, fuggono via.


PERCHE’ NO

Estetica/anestetica. E mentre l'uomo in più gioca a fare l'amico di famiglia nei salotti romani, sotto le luci della ribalta c’è un’altra vittima de le conseguenze dell'amore. Ancora un divo si è perso nell'inutile ricerca de la grande bellezza. Jep Gambardella (Toni Servillo) è la rockstar incompiuta che ossessiona Paolo Sorrentino fin dal suo esordio. Una conferma e un primato. L’autore del momento è un feticista glamour che, dietro al botulinico maquillage stilistico, nasconde una monologante assenza di idee. Le battute più belle sembrano rubate alla premiata ditta Torre/Ciarrapico/Vendruscolo autori, loro si, di una “grande bellezza” sulla decadenza del nostro tempo. E’ molto meno di un Boris privo d'ironia, il suo atto di odio nei confronti di Buñuel e Fellini, capace però d’imbonire le masse staccando biglietti. Spot, videoclip e trailer con il difetto di essere noiosamente lunghi. Che Gambardella, l’errabondo gentiluomo vittima di un folgorante esordio, sia Sorrentino? QUANTA BELLA GENTE E CHE VINO!




dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.14

lunedì 29 aprile 2013

Di rassegna in rassegnazione

«Solo per questa volta cambio registro. Non più mille battute per un film, ma mille battute per una serie di film. Non più mille battute di contrasto alla serie di film ma il, lungo e rassegnato, racconto di un sogno».

RASSEGNE 

Eppur si muove! E’ tempo di Segnali 2013 e arriva al cinema Il gabinetto del dr. Caligari di Robert Weine, colonna sonora, live performance computer, a cura di Edison Studio (2/05). Il primo thriller psicologico della storia del cinema, fermento espressionista, film culto, per una serata degna della Cinémathèque française. Si agita ancora! Ed ecco il Retro film festival. Sul grande schermo LA NOTTE di Michelagelo Antonioni, lo scrivo in maiuscolo e non commento. Invidio chi lo vedrà per la prima volta (8/05). Respira! Il C%!#nema che ci pare... un “manipolo” di studenti (scuole superiori) ben armati, seleziona e proietta film per la Città. Film scelti da ragazzi, non film da «ragazzi». Ed Wood di Tim Burton (4/05) e L’odio di Mathieu Kassovitz (18/05). Il cinema è vivo! Kill.it vol. 2. Ode al cinema italiano disperso nel supermercato cinematografico. Segnalo L’intervallo di Leonardo di Costanzo, opera prima che ha incantato Venezia 2012 (28/05). Accade a Perugia. Accade al Cinema Zenith. MAGGIO DA CINETECA.



RASSEGNAZIONI

Perugia nel gotha delle capitali? Perché no? Occasione irripetibile! Ripensiamo la città. Smontiamo e rimontiamo a misura d’uomo. L’utopia della cultura al potere. Sogno: cineteca, centro studi, cinema... sale cinematografiche. E poi mi sveglio. Cernicchi alla radio che canta... «tu mi fai girar, tu mi fai girar..». Sono le tre meno un quarto. Bracalente nella mia stanza, danza leggiadro... demi pliè e salta giù dalla finestra. Panico. Boccali e Ricci: corvi coi visi da sindaci!!! Mi sveglio ancora, tremo. Stavolta è reale. La bocca spalancata, zero saliva. Brucio. Afferro l’acqua sul comodino. Accendo la luce. E’ tutto chiaro: Inception, dopo la parmigiana, visto sullo schermo del portatile. Mai più!
Senza cinema e senza speranze. Che sia questo il messaggio del mio sogno nel sogno? In attesa dello psicanalista mi guardo intorno e mi accorgo che, in questi mesi di candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019, vissuti in maniera più o meno stimolante, non ho ancora ascoltato alcuno mettere in agenda di PerugiAssisi il mondo dell’audiovisivo. Eppure Perugia è terra di Immaginario, di Festival Internazionale del Giornalismo, di festival minori, ma non meno necessari, e di tante rassegne che con costanza offrono alla Città e alla regione ospiti autorevoli e visioni non consuete. Sarò di parte, ma possibile che in questo progetto non si evidenzino bisogni e criticità del mondo dell'audiovisivo? Possibile che per il futuro nessuno abbia pensato, non dico al Palazzo della Cultura Cinematografica di stampo Sovietico, ma almeno ad un luogo di studio e confronto che riunisca al suo interno tutti i titoli sul tema già presenti nlle biblioteche comunali. Oppure ad uno spazio nuovo, con una, due, tre "sale cinematografiche", capace di dare slancio e vitalità allo storico Centro Studi del Teatro Stabile. Serve una dimora. Un luogo capace di riaggregare la galassia di piccole iniziative private che si perdono nel chiuso di un garage o nella sede di qualche associazione. E’ mai possibile che in questa città chi vuol vedere un film “leggermente off” sia costretto a nascondersi dietro allo schermo di un computer? Troppo e bene fanno le due sale cittadine. Che debbano chiudere, per mostrare alla città, il loro reale valore? BASTA QUESITI, FUORI LE IDEE.





dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.13


martedì 2 aprile 2013

Maledetto streaming

«Libertà, son più di vent’anni, che nei panni di straccione me ne vo’. E coi ragazzi, come me, solo questioni, mentre i capoccia dividevano i milioni... ». Con questo refrain nella testa e Stefano Rosso nel cuore, guardo le dirette streaming e m’incazzo. Penso alla Lombardi e al povero Bersani. Ah, se ci fosse stata Katia Bellillo... Guardiamo avanti. «April she will come». E’ Festa di Liberazione. Ipotizzando che al peggio non c’è mai fine, meglio scongiurare guardando ai Partigiani. Al miglior Cinema Italiano e alla meglio gioventù. Il pensiero e le immagini di un paese ai margini di un ventennio.

TUTTI A CASA

Nomen, omen. Rubrica e film. Che al contrario di quanto si possa pensare, a casa non porta nessuno. Film sulla responsabilità dell’azione. Luigi Comencini cuce su Alberto Sordi e Serge Reggiani i panni di un' Italia in fuga dalle barbarie. La vigliaccheria fatta persona in abiti militari, diventa coraggio in quelli civili. Un viaggio da nord a sud, attraverso lo stivale, dal Veneto 8 settembre al Napoletano 27 settembre 1943. 20 giorni che trasformano 20 anni di tenebre in una nuova luce. Un passaggio di epoche che nella liberazione del 1960 (anno di produzione del film) faceva guardare con giusto distacco dittatura e liberazione, mettendo, con abile gioco straniante, lo spettatore al centro di una democrazia incompiuta. Partecipazione è liberazione. Il giudizio è netto. Quando il Cinema Italiano conquistava il mondo: il fascismo era il male assoluto e Tutti a casa era speranza, non anatema. L’alba di una nuova epoca è nelle parole del Tenente Innocenzi«No... non si può stare sempre a guardare». LECTIO MAGISTRALIS.


dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.12

venerdì 29 marzo 2013

Orticaria post elettorale

Avrei voluto scrivere di altro: di Berlinale, di Oscar, di premi e grandi esclusi. Scrivere di film da scovare come The broken circle breakdown di Felix Van Groening, non ancora visto, ma vincitore assoluto della sezione Panorama e pertanto da tenere d'occhio. O scrivere di film da recuperare come Amour. Poi però... tra Grilli parlanti, Oscar menzogneri, Magistrati con il jet lag, Piacentini bastonati ed Indagati in trionfo: la mano è scivolata qui. Ieri notte, tra una birra e una chiacchiera, l'amico Marco ha avuto il grande merito di accendere il proiettore e, come visione mistica, è apparso Gianni Carretta Pontone: il tassista di A+R di Marco Ponti. Apro e chiudo parentesi su Marco Ponti: regista astratto e volitivo che nei primi anni 2000 ci ha deliziato con Santa Maradona e deluso con A+R, lasciandoci però il piacere di decine di clip di culto e citazioni raffinate. Su tutte, appunto, quel Gianni Carretta Pontone che, facendosi vox populi, grida nel traffico..... Lascio agli amanti della ricerca il piacere della scoperta: youtube ne è pieno. In tempo di elezioni, di esiti indecisi e di geni assoluti della comunicazione politica, apriamo una minuscola finestra su un certo cinema verità, esorcizzando in pellicola quello che un paese sembra incapace di pretendere: Berlusconi no!!!!!

QUALCHE TEMPO FA

Le mani sulla città, Napoli 1963: metafora e profezia. Leone d'Oro a Venezia, il film di Francesco Rosi è il miglior esempio di cinema verità mai realizzato nel e sul nostro paese. Opera potente che apre il sipario sui teatrini dell'amministrazione pubblica. Speculazioni edilizie, corruzione, compravendita di voti e conflitto d'interessi la fanno da padrone. A mezzo secolo da Le mani sulla città cambiano nomi e geografie politiche ma restano i buoni e i cattivi, distinti e riconoscibili, in un’Italia tronfia della sua miscellanea qualunquista. Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Cristo si è fermato ad Eboli, questo è Francesco Rosi: cinema e memoria di un paese edificato sull'oblio. Vedere il film cinquant’anni dopo riproduce come un’eco le parole di Giuseppe Tommasi di Lampedusa: «Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». TRISTEMENTE PROFETICO.


CHE TEMPO CHE FA

Tutto tutto niente niente, Viva l’Italia, Commedia sexy... inutile dilungarsi su certo cinema utile solo ad arricchire buona parte dei corruttori/produttori italiani. Basta assolvere commedie, o sedicenti tali, che raccontano un paese cialtrone e criminale, felice di esserlo. Basta giornali, showman, ed “insospettabili” del sistema mediatico assoldati per dare risonanza a tutto questo. Non servono 1000 battute: DI QUESTO CINEMA NE FAREMMO SINCERAMENTE A MENO!




dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.11

Se a gennaio hai già visto il film dell'anno


Fiasco, successo, pretenzioso, immortale, pretestuoso, capolavoro, storia del cinema, rottura immane... ne ho sentite di ogni. Social network, blog più o meno rispettabili, riviste online, riviste cartacee, ristoranti, bar e capannelli di discussione fuori dalle sale cinematografiche. In ogni luogo virtuale o meno si è celebrata l’apoteosi delle parole: discussioni e litigi interminabili sull’ultimo film di Paul Thomas Anderson, divertenti ed estenuanti come raramente mi è capitato di vivere per un opera cinematografica. Dapprima sorpreso, poi incuriosito dall’acredine con la quale ci si è scagliati contro un film che considero un capolavoro, ho chiesto un po’ in giro cercando un volontario o una volontaria che volesse divertirsi nel distruggere, dissacrare o più semplicemente sconsigliare la visione di The Master. Ne è nato un interessante featuring con Simone Rossi. A lui il ritornello del perché no, a me la strofa del perché si!!!


PERCHE’ NO

Inizia The Master e pensi a Il Petroliere, con l'incontro/scontro tra due uomini solo in apparenza agli antipodi. Il cinema di Anderson è sempre una goduria per la vista, con i suoi spazi aperti allestiti come un salotto buono. Ma se l'avvio è folgorante – l'isola, il centro commerciale – con la cinepresa che bracca il reduce Freddie (Phoenix); l'entrata in scena del corpulento Dodd (Hoffman), crea l'ingorgo. Non certo perché si navighi a vista. Il problema è in un discorso filosofico sul mondo troppo autoreferenziale, infarcito di momenti e situazioni inopinatamente lasciati in sospeso. Certo il messaggio implicito è chiarissimo: nessun Maestro può esistere senza un Allievo che lo idolatri. Ma poi? Il gioco di ambiguità che dovrebbe restituire lo smarrimento da dopoguerra di un Paese, non può bastare: e lo spettatore finisce per sentire puzza di fregatura. The Master è per questo un film poco riuscito. Ma da rivedere. Per capire se, e quanto volontariamente, il regista si sia divertito a confonderci.


PERCHE’ SI

The Master. Perché non vederlo? Perché privarsi di tanta rara bellezza? Non è lento lui, lo siete voi nel capire. Non è autoreferenziale, lo siete voi: incapaci di cogliere dentro lo schermo l’esposizione di un teorema che terrorizza le coscienze. Il racconto della natura capitalistica e dell’uomo postmoderno. Anderson riempie carne e spirito, con una lezione di regia che nel suo manifestarsi diventa storia del cinema. Una fotografia controluce che irrita i nostri occhi come l’unico specchio, funzionante, che riflette la nostra immagine distorta. L’imponente Dodd (Seymour Hoffman) vende ciò di cui l’uomo ha bisogno. Parole come elettrodomestici, cure come automobili, sogni come libri a domicilio. Mentre Dodd e la luciferina Peggy (Amy Adams) costruiscono il monte di pietà, il mostruoso Freddy (Joaquin Phoenix) offre loro una prateria di cambiali, prestiti al consumo, rate ed interessi. Un film nella crisi. Ma con una speranza: si può smettere di pagare. CHE A FALLIRE SIANO LE BANCHE!!!

dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.10

Mille e più non replico! Le “battute” al servizio di questo blog che si presenta con i piedi in due staffe. Un piede al di qua ed uno al di là della profezia Maya sulla fine del mondo

AL DI QUA

Larry Clark. Per chi non lo conosce dico che è nato in Oklahoma il 01/01/1943 e cito tre suoi film da vedere assolutamente: Kids, Bully e Ken Park. Dopo la visione di almeno uno dei tre, avendo compreso genere ed autore, veniamo al punto. Roma, 11 novembre 2012 - «Fuck Hollywood!» Così il caro Larry esordisce in conferenza stampa al termine della proiezione di Marfa Girl, il film che vincerà il Festival Internazionale del Film di Roma. «Io sono contro un sistema che è dominato da truffatori che amano solo il guadagno e dai quali non ho mai avuto un dollaro! Ho deciso: dal 20 novembre, tutti potranno vedere Marfa Girl al costo di $ 5,99 sul mio sito web: larryclark.com. Non ho mai fatto film per soldi, ma solo per onestà verso me stesso. Fuck, fuck, fuck!» Non serve trama, commento o anticipazione. Va visto e contestualizzato. Unica indicazione: Larry Clark non racconta storie, mette in scena il racconto della vita imparata da chi ha vita da raccontare. URTICANTE!


AL DI LA'

Django. Voce fuori campo: «Un uomo che alla durezza dell’azione sapeva unire la dolcezza di un amore senza speranza...». In campo lungo Franco Nero che trascina una bara nel fango, una mitragliatrice nascosta dentro la bara e 50 nazisti del profondo west da trucidare!! Il film di Sergio Corbucci del 1962 è, assieme a quelli di Sergio Leone, tra gli Spaghetti Western più famosi al mondo. Anche Takashi Miike, inquieto autore di The call, Zebraman e 13 Assasini, uno che di normale ha solo kimono e katana poggiati sul comodino, nel 2007 ne fa il suo Sukiyaki Western Django. Un Django nipponico, manga western e samurai, che sotto l’egida di Quentin Tarantino diventa una piccola grande perla di cinecitazionismo. E se Leone e Corbucci fanno gli Spaghetti partendo dai samurai di Akira Kurosawa, Miike e Tarantino fanno il Sukiyaki ispirati dalla Sora Lella. Sukiyaki alla matriciana che, aspettando il Django Unchained di Quentin Tarantino, sazia, affama e inganna l’attesa. BISTECCA ALLA TARTARA!


dalla rubrica MILLE E PIU' NON REPLICO pubblicata su UMBRIA NOISE n.9